Cima di Monti di Bagno

...aspettando l'alba su una vetta al di fuori dei soliti sentieri...

Qualche volta nelle vicissitudini di tutti i giorni avresti voglia di cambiare le regole, di provare a virare di prua ed andare a scoprire nuovi orizzonti; magari per mettersi in discussione, per ricercare vecchi spiriti e motivazioni, per ritrovare certi momenti vissuti ed assaporati e mai più ritornati. Oppure provare a ricambiare le regole per rimettere a posto sicurezze perse per ritrovare orizzonti rassicuranti e certi. Tutti slanci che non riesco a mettere in atto nella mia disordinata vita e che, sicuramente più facile, tento di portare nel mio rapporto con la montagna. Rapporto che nel bene o nel male a tratti ha perso lo slancio delle prime volte. Per questo non molto tempo fa, in uno dei tanti week end in bilico tra rischi di temporali e finestre di bel tempo labili come le incertezze umane proposi una uscita rapida, una toccata e fuga come si è facile dire, per andarci a conquistare la Cima dei Monti di Bagno. Proposi una uscita strana per noi, diversa dai soliti schemi, una uscita notturna, l’alba in vetta ed una rapida discesa per evitare la perturbazione in transito; era un modo per tornare in montagna e cercare di farla in barba a questa primavera che si stava prendendo beffa di noi. Poi non se ne fece nulla; vinse un colpo di coda del brutto tempo che stravolse ancora una volta il mio progetto. Questo week end lo scenario si ripeteva in maniera similare, tanto che lo spunto per risplolverare il vecchio progetto calzava a pennello con la finestra di tempo stabile che si andava costruendo tra il pomeriggio di Sabato e quello di Domenica. Il fascino di una notturna e per di più con condizione di luna quasi piena non poteva che allettare i miei compagni di follia Giorgio e Luca che aderirono senza condizioni. Luca poi non è potuto essere dei nostri per un problema familiare dell’ultimo momento. Peccato perché sarebbe stato bello condividere insieme, tutti e tre, questa esparienza. L’appuntamento si fissa per la mezzanotte esatta. Nonostante l’avvicinamento lento siamo arrivati al parcheggio del Valico della Crocetta di Campo Felice all’una ed un quarto. Spenti i fari dell’auto un buio profondo come il momento di vita che sto vivendo ci si avvolge tutt’intorno. I primi istanti sono stati dominati da un senso di inadeguatezza; che ci stavamo a fare noi ed i nostri progetti al cospetto di quelle montagne così buie e misteriose? Ma dovevamo solo attendere che i nostri occhi si adattassero alla nuova condizione; da animali di città dovevamo tornare ad essere animali liberi e istintivi. Per trovare la nuova dimensione e perché eravamo in netto anticipo sui tempi siamo rimasti in auto ad aspettare per una mezz’ora. Il cielo era velato e la luna si nascondeva dietro nuvole sfilacciate dal vento. Quando abbiamo iniziato i preparativi ci siamo subito resi conto di quanto eravamo goffi fuori dalle nostre consuetudini e quanto dipendevamo da ogni pur labile fonte di luce. Comunque con qualche difficoltà in più riusciamo a prendere l’assetto e alle 13 e 45 prendiamo a salire. Il sentiero lo conosciamo come le nostre tasche e salire fino alla sella che si affaccia alla Fossa Palomba è stato facile; quasi in sella il cielo si è velocemente pulito da quel pallore che lo aveva dominato e spento fino a quel momento e la luna ha dato un volto al mondo intorno a noi. Ormai eravamo perfettamente abituati a quella luce, i nostri sguardi arrivavano lontani come fosse giorno e trovare la propria ombra proiettata a terra è stato un momento emozionante. Le lampade frontali che avevamo indossato ed utilizzato a tratti fino a quel momento sono diventate del tutto inutili. Superiamo un branco di cavalli sotto il loro sguardo vigile e imbocchiamo il sentiero a mezza costa che costeggia le pareti rocciose del gruppo Ocre-Cefalone. Sotto di noi Fossa Palomba è ancora una buia depressione nonostante i sui tratturi siano già ben evidenti e Casamaina uno sparuto gruppo di fioche luci tremolanti. Procediamo spediti anche sulle rocce dello spigolo che incontriamo e dove le pendenze si fanno più ardue accendiamo le frontali, ma solo per un eccesso di sicurezza. Virato lo spigolo la luna si nasconde dietro la cresta proiettando l’ombra del pendio che stavamo calcando giù in basso, in una sorta di buco nero che nulla fa più distinguere. Ormai abituati all’ambiente procediamo spediti senza perdere quota; le sagome dell’Ocre e lontano della nostra meta si fanno distinguere nel chiarore notturno. La sella di Settacque è lontana da raggiungere, un ampio giro intorno ai pendii della conca ci farebbe perdere una enormità di tempo. Decidiamo di scendere in valle e risalire la costa davanti a noi. Con qualche titubanza per via dello schiacciamento delle prospettive che la notte portava con se. La parete ci sembrava molto verticale ma la via d’uscita c’era; se fosse risultato difficile salire direttamente la parete della dorsale che sulle carte viene chiamata “La Faina” avremmo sempre potuto seguire il tratturo di fondo valle e salire dalla Selletta di Settacque. Le distanze e la notte avevano di molto schiacciato le prospettive; saliamo agevolmente le coste della Faina fino a quando voltandoci indietro rimaniamo sbalorditi da uno scorcio fiabesco. Sotto di noi la valle stretta che sale alla Selletta di Settacque, davanti le pareti in ombra di quel duemila non etichettato che se vogliamo possiamo catalogare come un’anticima del Cefalone e su uno spigolo di fronte, illuminata dalla luna, una lama di neve ancora testarda a sparire. Bianca, luminosa, fosforescente, in contrasto col nero del cielo in una sorta di giochi di riflessi impossibili da raccontare e da fotografare. In alto la luna splendente come mai prima di quel momento. Non c’è stato bisogno di dircelo; ci siamo fermati, tolti gli zaini, seduti per fermare il tempo ed immortalare quel fotogramma di certo irripetibile per tutto il resto della vita. Il silenzio ha dominato quegli istanti, la voglia di fare propria, ognuno alla propria maniera, quell’atmosfera che nessun pittore, anche il più bravo sarebbe stato capace di riproporre al mondo. Eravamo coscienti che quello spettacolo era solo per noi e che solo noi potevamo goderne. In chissà quanti altri posti nel mondo altri istanti di sublimazione delle emozioni si potevano vivere, anche fotogrammi più belli, ma lì, in quel momento, sulle coste dell’Ocre c’eravamo solo noi, io e Giorgio e quello spettacolo era destinato solo a noi. Un momento di pochi minuti che valeva il biglietto dell’intera notte insonne. Pochi attimi di passione ancora e in un attimo eravamo in cresta alle “Faine” e davanti a noi la nostra meta. I Monti di Bagno. Solo un’altra depressione a dividerci. Non rimaneva che proseguire in cresta per aggirare il dislivello; ciò che ci ha fatto temere per le distanze eccessive si è dimostrato invece una agile risalita di quota fino alla cresta definitiva che ci avrebbe condotto alla nostra cima. In cresta, sulla destra il pendio roccioso che ci avrebbe condotto in cima all’Ocre, sulla sinistra la formazione rocciosa che a torto abbiamo classificato come la Cima dei Monti di Bagno. Sopra, ancora un cielo nero come la pece che non dava assolutamente segni di aurora. Eravamo un po’ in anticipo. Raggiungiamo la formazione rocciosa più alta della cresta alle 3 meno un quarto e proprio perché distintamente la più alta dell’intera cresta ci convinciamo di essere arrivati alla fine del nostro percorso. Non rimaneva che aspettare l’alba. A dire il vero eravamo un po’ preoccupati; alle 3 meno un quarto con più di un’ora di anticpo, aspettare l’alba con un vento teso e freddino non è la cosa migliore che ci si possa augurare. Ci organizziamo per scattare delle foto. Io con la mia digitale compatta non riesco a fotografare nulla che non forme indistinguibili contornate dal buio più assoluto; per fortuna Giorgio si è portato la reflex con tanto di cavalletto e con le pose programmabili ha ottenuto risultati entusiasmanti a giudicare dal visore. Ben presto però il vento ha voluto le sue ragioni ed ha amplificato il senso di freddo che era nell’aria della mattina lenta a crescere. Le rocce di vetta ci hanno fornito un ottimo riparo, il resto è stato un coprirsi a strati progressivamente fino a trovare un giusto equilibrio. Davanti a noi appena percettibile nel cielo ancora buio l’intera catena del Gran Sasso; sotto la città dell’Aquila e tutti i paesini epicentro dell’ultimo drammatico terremoto splendevano in forme geometriche attraverso la regolarità dell’illuminazione stradale. Ci siamo rannicchiati in silenzio, a ridosso delle rocce a difenderci dal freddo. E i pensieri hanno coiminciato a correre. Eravamo a sole tre ora da Roma, un capoluogo di regione era lì sotto di noi, il mondo civile ci era intorno eppure in quel buio, in quel angolo di tetto del mondo dove eravamo ci sentivamo davvero ai confini dell’umano. La consapevolezza di essere soli e di vivere un momento davvero nostro. C’è stato tempo di ricordare, di guardarsi dentro. Eravamo consapevoli di non aver fatto nulla di eclatante ma nello stesso tempo eravamo consapevoli che i gesti di quei momenti non fossero stati ripetuti da molti. In quella sorta di unicità con se stessi è la vita, la voglia di vita e di stupore che prende valore. In quel momento, dopo una notte insonne, in cima ad una montagna, ancora al buio, in un luogo non destinato ai più ci siamo sentiti vivi. E non importa più chiedersi il perché di quei gesti. L’importante era esserci, viverlo quel momento unico. La voglia era quella di ritrovare l’equilibrio con il mondo, con i gesti, con le persone che fano parte della nostra vita, con quelle che abbiamo deluso, con se stessi. La voglia era quella di tornare ad essere un tutt’uno con il mondo che ci circonda, con i gesti semplici che ti danno felicità, con se stessi. Quante volte la montagna si è detto essere l’emblema della vita stessa? L’idea di accettare il sacrificio dell’alzataccia, dello sforzo, vivere lo sforzo stesso contro il proprio istinto conservativo, e alla fine essere ripagati dalla gioia di raggiungere la cima e dimenticare subito tutte le pene. Sulla cima dei Monti di Bagno tutte queste riflessioni mi sono esplose dentro, tra un tremito di freddo e la voglia dei primi raggi di sole. Forse era la catarsi del momento ma il tempo sembrava volare velocemente come mai nella vita mi è capitato. I primi segni di aurora si manifestavano dietro il Corno Grande e lentamente ma percettibilmente si aveva la sensazione dell’aumentare della luminosità. Giorgio scattava foto, io mi godevo in silenzio ogni istante conscio che non sarebbe più tornato uguale. E poi l’alba, lenta e costante a tingere l’azzurro del cielo e le nuvole sparse all’orizzonte di un rosa caldo e rassicurante. E’ stato in quel momento che ci siamo portati sulla cresta di fronte a noi; cento metri, non di più, una cresta più bassa ma che permetteva uno sguardo completo sulla valle sottostante. Ed in quell’istante Giorgio ha intuito l’ennesimo errore che abbiamo compiuto nella catalogazione delle vette. Più in basso non poco, verso Nord, la continuazione della cresta su cui avevamo piantato il campo finiva in una vetta che sembrava secondaria ma che vista la mole doveva essere comunque un duemila. Ma se quello era un duemila, doveve ci eravamo accampati non poteva essere la Cima dei Monti di Bagno; atroce conclusione avvallata dalla carta. Noi ci eravamo accampati nella cima senza nome a quota 2140 e quella vetta all’estremità della cresta era davvero la Cima dei Monti Di Bagno. Il resto è diventato un gioco. Lasciati gli zaini al “campo base” ci siamo precipitati verso il nostro obiettivo. Quasi una corsa che ha avuto il pregio di ridarci calore. La raggiungiamo in un quarto d’ora. A 2073 metri d’altezza Cima dei Monti di Bagno è una rotondità assolutamente scoperta. Ringraziamo l’errore commesso che ci ha permesso di ripararci dal vento gelido dell’alba su quelle rocce della quota senza nome. Nel frattempo l’alba saliva e i colori del cielo impazzivano; la valle sottostante si andava colmando di condensa ed il mare di nuvole isolava la catena del Gran Sasso dal resto del mondo. Tornando sui nostri passi abbiamo scattato foto dalle prospettive più diverse. Un gioco frenetico a raccogliere le sfumature di quell’alba fantastica, consapevoli comunque che nessuna foto avrebbe reso la centesima parte delle emozioni che in quel momento ci davano i nostri occhi. Il mondo riprendeva lentamente i caldi colori del giorno. Toni pastello ricoprivano le montagne, coloravano le rocce, le nuvole, tutto. Pochi minuti di colori talcati irripetibili. Quanti amici mi sono venuti in mente, e tutte le loro incredule domande a cercare i motivi di tante alzataccie precoci! Erano tutte lì le risposte, in quelle tinte calde che ricoprivano ogni cosa; peccato non poter portare un pezzetto di quel mondo al popolo di increduli di cui siamo contornati. La notte è passata velocemente, l’alba ha consumato il suo rituale con una rapidità ancora più eclatante. In pochi minuti il mondo ha ripreso i suoi colori consueti. Lo spettacolo era terminato signori. Riprendete i bagagli e preparatevi a riportare le vostre emozioni tra il mondo dei più o se volete a custodirle gelosemente come un bene unico. E così è stato. Più ricchi dentro ci siamo ricaricati dei nostri zaini e abbiamo ripreso la via del ritorno. Stesso itinerario dell’andata, ora colorato, con i prati verdi, i cavalli al pascolo, i fiori, le isole di neve tardiva. Le cime lontane che si facevano bella mostra tra le prime nuvole della perturbazione in arrivo. Il resto è stata la solita montagna. Entusiasmante ma poca cosa rispetto all’unicità delle emozioni notturne. Un’ora e quaranta minuti per scendere fino all’auto. Un sentiero conosciuto e percorso svariate volte che nulla aveva ancora da dirci se non sorprenderci con sfolgoranti fiorituire di orchidee. Quando i più stavano per iniziare le salite alle vette scelte come obiettivo noi stavamo prendendo per le nostre case. Erano le nove meno venti del mattino. Una giornata intera ci attendeva ancora ed avevamo già avuto molto da quello spicchio appena vissuto. Ecco a cosa serve sovvertire le regole: a sentirsi vivi. E proprio nella vitalità degli obiettivi raggiunti sta il cercare poi le conferme delle cose importanti, delle persone che fanno parte del nostro essere e di cui non si riesce di farne a meno.